L’urbanistica riparta da Milano

Serve una nuova urbanistica senza fermare la città

Le indagini aperte dalla Procura di Milano hanno riportato al centro dell’attenzione nazionale il tema dell’urbanistica.

In una città che negli ultimi due decenni è stata la punta avanzata della trasformazione urbana italiana, l’inchiesta ha fatto emergere sospetti di opacità nei processi decisionali e di forzature nelle procedure.

Ma più ancora delle carte giudiziarie, ciò che ha colpito è la sensazione diffusa che i municipi e i cittadini siano stati poco considerati nelle scelte fondamentali che hanno ridisegnato il volto della città.

Milano, laboratorio e vetrina di architettura contemporanea, diventa così anche il campo di battaglia per una riflessione più ampia: quale ruolo deve avere l’urbanistica oggi, e come può bilanciare interessi privati e bene collettivo?

L’appello: fermare i progetti per salvare la città

A dare voce a queste preoccupazioni è stato un appello firmato da oltre duecento tra docenti universitari, urbanisti, giuristi e intellettuali. Il testo è un atto di accusa severo: le trasformazioni urbane milanesi degli ultimi anni, si legge, hanno ridotto la qualità della città, aggravato le disuguaglianze sociali, favorito la speculazione immobiliare e sacrificato l’interesse pubblico.

Le operazioni, secondo i promotori, sono state condotte “al di fuori delle regole democratiche”, spesso aggirando leggi urbanistiche per garantire vantaggi agli investitori.

Nell’appello si citano casi concreti. La vendita dello stadio Meazza a San Siro, con la prospettiva di abbattere un impianto simbolo della città; la trasformazione degli ex scali ferroviari, destinati a diventare quartieri di lusso più che poli di servizi; la “Goccia” della Bovisa, dove la riqualificazione di un’area industriale abbandonata rischia di tradursi in un’ennesima occasione persa per il quartiere; la radicale metamorfosi di piazzale Loreto, pensata come vetrina commerciale più che come spazio pubblico.

Anche la BEIC, la Biblioteca Europea di Informazione e Cultura, e i progetti sopra i binari della stazione Cadorna vengono indicati come interventi da sospendere, perché pensati con logiche prevalentemente immobiliari e non con visione di città.

La richiesta è drastica: fermare questi cantieri e aprire un confronto democratico. Rivedere il Piano Casa, puntando davvero su edilizia residenziale pubblica e studentati accessibili. Riscrivere il Piano di Governo del Territorio sulla base di criteri di equità sociale e sostenibilità ambientale.

Bloccare definitivamente il consumo di suolo e rimuovere dai piani urbanistici previsioni rimaste lettera morta da più di cinque anni. In sostanza, restituire all’urbanistica il suo compito originario: disegnare la città per i cittadini, e non per gli investitori.

Milano non può fermarsi!

Se da un lato l’appello ha il merito di riportare l’attenzione sull’urgenza di una nuova urbanistica, dall’altro la proposta di sospendere i cantieri solleva dubbi e critiche. Milano, ricordano molti, è stata l’unica città italiana capace di attrarre negli ultimi vent’anni investimenti internazionali e di rigenerare vaste aree abbandonate. Porta Nuova, con le sue torri e il parco, ha trasformato un’area ferroviaria in un simbolo di modernità.

L’ex Fiera è diventata un nuovo quartiere con edifici firmati da grandi architetti. Zone come Rogoredo e Bicocca, un tempo periferie marginali, sono oggi poli culturali e residenziali.

Bloccare tutto significherebbe vanificare miliardi di euro già investiti e lasciare per anni scheletri urbani a metà, con il rischio di degradare ulteriormente aree delicate. E se è vero che molti progetti presentano limiti e contraddizioni, è altrettanto vero che una sospensione totale paralizzerebbe la città proprio nel momento in cui Milano si gioca la sua immagine internazionale.

Molti sottolineano inoltre che gran parte dei firmatari dell’appello non vive o non lavora a Milano, e dunque rischia di avere uno sguardo più teorico che concreto sulla complessità della città.

Dal conflitto al dialogo

Il dibattito, allora, non può ridursi alla contrapposizione tra chi vuole fermare tutto e chi difende lo status quo. La vera questione è come garantire che lo sviluppo sia regolato e trasparente, senza compromettere la vitalità della città. Non serve fermare Milano, ma fermare l’arbitrio.

Ciò significa imporre trasparenza nei processi decisionali, garantire partecipazione dei municipi e dei cittadini, legare ogni grande progetto a un chiaro ritorno in termini di servizi pubblici, verde, edilizia accessibile, sostenibilità ambientale.

Un piano di verifica e di correzione mirata dei progetti in corso sarebbe la soluzione più pragmatica: controllare dove si sta consumando troppo suolo, ricalibrare i volumi, rafforzare la componente di edilizia sociale, rinegoziare con i costruttori spazi pubblici e infrastrutture. Questo consentirebbe di non disperdere gli investimenti e al tempo stesso di restituire centralità all’interesse collettivo.

Milano come laboratorio nazionale

Milano non può fermarsi. Non deve fermarsi. Ma deve trovare la forza di ripensarsi.

Il dinamismo che negli ultimi decenni l’ha trasformata nell’unica città italiana con uno sguardo davvero europeo, capace di attrarre capitali e visioni, rappresenta al tempo stesso la sua fragilità più evidente. La velocità del cambiamento porta ricchezza e opportunità, ma apre anche squilibri, genera pressioni e lascia scoperte che diventano sempre più difficili da colmare.

Per questo la città ha bisogno di una governance chiara, solida, trasparente. Un governo del territorio che non rincorra le emergenze, ma che sappia guidare i processi con regole certe e obiettivi condivisi. Senza questa cornice di responsabilità, Milano rischia di trasformarsi in un mosaico di operazioni immobiliari, un insieme di cantieri privi di dialogo tra loro, più che un organismo urbano vitale. E una città fatta di frammenti non costruisce comunità, ma solo spazi giustapposti, difficili da abitare e da riconoscere come propri.

Oggi l’urbanistica milanese si gioca tutto su un crinale sottile. Da una parte c’è la spinta allo sviluppo, che non può arrestarsi. Dall’altra emerge la necessità di garantire giustizia sociale, diritto all’abitare e qualità della vita.

Milano vive in un equilibrio instabile. Da un lato alimenta le sue ambizioni internazionali, dall’altro deve rispondere ai bisogni concreti dei suoi abitanti. Non basta crescere. Bisogna crescere bene, distribuendo i benefici e senza lasciare indietro interi quartieri o fasce di popolazione.

Se riuscirà a compiere questa svolta, Milano potrà diventare un modello nazionale.

Non solo capitale economica e culturale, ma laboratorio di una nuova urbanistica che metta insieme architettura iconica e responsabilità sociale, innovazione e tutela ambientale, grandi progetti e diritti di cittadinanza. Una città che non rinuncia alla sua vocazione internazionale, ma che la mette al servizio di un disegno più giusto e inclusivo.

Ripartire da Milano significa proprio questo: non fermare i cantieri, non bloccare gli investimenti, non congelare la sua energia creativa. Significa trasformare ogni intervento, ogni progetto, ogni grande operazione immobiliare in un’occasione per restituire spazi pubblici, servizi, qualità urbana. Significa fare della crescita economica uno strumento per costruire una Città più equa, più sostenibile, più capace di includere e di guardare lontano.

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