Antonio Salvatore

Fate Presto! La Moda dei Briganti, il Grido dell’Irpinia

Antonio Salvatore, fashion designer classe 2001, è tra gli emergenti più promettenti del panorama italiano. La sua sfilata di promozione al Fashion Graduate Italia ha segnato la conclusione del percorso di studi presso l’IUAD Accademia della Moda di Napoli.

Il Fashion Graduate è un evento aperto al pubblico che porta in passerella i look dei giovani talenti pronti a entrare nel mondo della moda italiana e internazionale. L’edizione 2025, tenutasi a Milano presso BASE in zona Tortona, aveva come tema “Intersezioni”, con l’intento di esplorare la bellezza e la complessità dei linguaggi contemporanei, trovando un punto d’incontro tra mondi diversi.

La moda è un ponte tra storia, generazioni, stili e nuove tecnologie.

Chi è Antonio Salvatore?

Sono Antonio Salvatore, classe 2001. Nato e cresciuto a Carife, un piccolo paesino della Baronia, da una terra che non concede scorciatoie: o ti spezza o ti tempra. Non ho scelto la moda.

È stata la moda a scegliere me, quando ho capito che un abito può contenere più verità di un discorso. In un vestito posso mettere la polvere, la rabbia, il silenzio, la memoria. Non mi interessa “essere alla moda”. Mi interessa essere necessario.

Ti definisci cantastorie, creativo per vocazione e venditore ambulante di frivolezze. 

Come sei arrivato a diventare fashion designer e cosa vuoi che la tua moda racconti?

Sono arrivato alla moda passando dalla narrazione. Volevo scrivere, fotografare, disegnare. Poi ho scoperto che un abito è un contenitore di storie più potente di qualsiasi parola. La moda è la mia lingua. 

Quello che faccio non nasce per piacere. Nasce per lasciare un segno. Voglio una moda che parli di realtà. Non edulcoro, non abbellisco. Mostro le crepe e mi innamoro di esse.

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Antonio Salvatore

Nella collezione uomo FW26 porti in passerella le tue radici. Sei originario di Carife, un piccolo borgo nella provincia di Avellino, terra segnata dal terribile terremoto del 23 novembre 1980.

Cosa racconti nella collezione tra l’evento del terremoto, il brigantaggio e la figura del brigante come simbolo di resistenza?

“Fate Presto” è un grido di aiuto, non una collezione.
Il titolo viene dalla prima pagina del quotidiano Il Mattino dopo il terremoto del 23 novembre 1980: “FATE PRESTO”.

Era una supplica. Non fu ascoltata.

Da lì nasce tutto: dalle macerie, dalle case sventrate, dal rumore della memoria che non smette di bussare.

L’Irpinia è un luogo spirituale e ha una ferita ancora aperta. Il brigantaggio è l’altra faccia della stessa ferita. Ci hanno insegnato che erano banditi.
In realtà erano uomini che rifiutavano di piegarsi. Resistevano alla cancellazione della loro identità. La collezione racconta proprio questo: la dignità di chi non si arrende.

Afferma che questa storia non può essere raccontata con le parole: va vissuta e respirata. È l’odore del fuoco, il freddo della notte, il peso della scelta. È una vibrazione che attraversa tutto, che ti tocca, ti scuote e ti ricorda chi sei…

Quanto conta oggi per un designer raccontare chi è e da dove viene?

Conta tutto.

Nel mondo di oggi si producono collezioni senza radici, pensate per esistere soltanto su uno schermo. Io invece credo che un designer debba mettere se stesso in ciò che crea.

La storia personale è l’unica cosa che non può essere copiata né replicata. Se non racconti da dove vieni, stai solo cucendo tessuti.

Nella collezione gli uomini sono presentati come briganti contemporanei. L’Irpinia vive un legame profondo con il brigantaggio, figure complesse che oggi diventano identitarie, non banditi ma sovversivi. 

Chi è l’uomo che rappresenti e quali valori incarna?

È qualcuno che non chiede il permesso per esistere. È un uomo che sa stare nel fango senza perdere la propria nobiltà. Non ha paura di essere ruvido, sporco, imperfetto. È fedele a ciò che ama, difende ciò che resta.

Ha tre valori: identità, coraggio, restanza (come la chiama Vito Teti).

Ispirandoti a figure storiche come Ninco Nanco, il sergente Crocco e Brutta Cera, le loro storie di ribellione e resistenza diventano oggi simboli identitari. Rappresentano la forza di chi sfida le ingiustizie, il legame con la propria terra e la capacità di trasformare la memoria in azione.

Come interpreti queste figure oggi, alla luce delle sfide contemporanee che attraversa il Sud?

Sono simboli di resistenza. Non portavano bandiere. Portavano ferite.

Oggi i briganti sono i ragazzi costretti a lasciare il Sud per trovare un futuro altrove. O quelli che restano e vengono considerati folli nel farlo. Il loro insegnamento è chiaro: se non trovi il tuo spazio, crealo. Contro tutto e tutti.

Nella collezione hai studiato anche gli accessori: cinture, anelli, porta-sigarette.

Come sono nati gli accessori, con chi hai collaborato e cosa c’è dietro ogni dettaglio?

Sono nati dal territorio e dalle persone che lo abitano.

  • con Studio Ortogonale (Carife) ho realizzato i bottoni in gres chamotte;
  • Dyskinesiaa (Parigi) ha creato gli anelli in argento antico;
  • Demiurgo (Solofra) ha prodotto le borse;
  • Maison 1995 ha realizzato il cappello;
  • la colonna sonora originale è di Alessio D’Orlando, mio amico d’infanzia e un talento puro — meriterebbe molto di più.

Non ho scelto fornitori. Ho scelto alleati. Persone che credessero nella mia visione.
Ogni accessorio ha una storia, una mano riconoscibile, un nome.

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Antonio Salvatore FW26 – i look

Qual è il pezzo della collezione di cui vai più orgoglioso?

La giacca del look 3. Ne sono quasi innamorato. È realizzata in pelle di montone conciata a Solofra (AV) dall’azienda Ripell, un’eccellenza del territorio campano.

Era un materiale destinato allo scarto dai brand di lusso: pelli con micro-difetti, invisibili agli occhi del marketing ma perfette per chi ama ciò che è reale. Io invece vado matto per quei difetti. Ogni irregolarità racconta una storia.

La giacca è stata invecchiata a mano, strato dopo strato, come si farebbe con un oggetto tramandato più che prodotto. Ha una struttura ruvida, vissuta, non levigata dalla perfezione industriale. È il contrario di un capo nuovo: è un capo con memoria. Anche i bottoni e le spalline sono recuperati: provengono dall’archivio di un laboratorio artigianale e erano gli ultimi pezzi rimasti.

Non sono stati acquistati, sono stati trovati. Salvati.

Definisci l’Irpinia come “colline ferite e memorie che non smettono di bruciare”, un archivio di silenzi, case cadute e voci che resistono. La moda è diventata per te un mezzo per esprimere, raccontare, denunciare e comunicare. 

Cosa dell’Irpinia ti ispira di più?

Il silenzio. E ciò che il silenzio contiene. Le case vuote dopo il terremoto, i paesi dimezzati, le strade senza uscita. L’Irpinia ti chiede una scelta: o la odi, oppure ti ci leghi per sempre. Io ho scelto di restarle fedele.

Il tuo percorso continua verso il mondo della moda internazionale, in un periodo complesso, tra crisi della filiera, finanza che condiziona e poca attenzione che l’Italia riserva alla moda, al design e all’arte.Il tuo progetto è quello di fondare una nuova estetica e un anti-brand in grado di opporsi all’effimero. 

Quale progetto hai in mente e quali sono i prossimi passi?

Voglio costruire un modello diverso.
Un marchio che non corre dietro al tempo ma lo abita.
Artigianato.
Materiali già esistenti.
Persone del territorio.
Produzione lenta, umana.
La sostenibilità non è un concetto. È una responsabilità.

Oggi la moda italiana affronta una crisi che coinvolge l’intera filiera, tra chiusure, scandali e il fast fashion.

Qual è il tuo punto di vista in merito a questa situazione come giovane designer?

È una crisi di coraggio. La moda ha smesso di ascoltare le mani che la costruiscono, preferisce gli slogan alla sostanza.
Il fast fashion uccide il valore e l’attesa.

Io scelgo la strada opposta: meno comunicazione, più verità.

Hai studiato a Napoli, mentre i principali centri della moda italiana sono Milano e Roma. Passare da un borgo di provincia alla scena metropolitana può essere visto come un atto di ribellione, ma anche di presa di coscienza.

Secondo te, un designer deve restare legato al proprio territorio o allontanarsene per raccontarlo davvero?

Io me ne sono andato per capire, ma mai troppo lontano. Sono tornato per restituire. Un abito può essere un gesto politico.

Può dire: “Questa terra esiste e non sarà dimenticata.”

Infine, un momento di riflessione profonda:

Quando tutto tace e resti solo, con il tessuto tra le mani, cosa parla più forte: la memoria o il futuro?

La memoria. È da lì che viene tutto. Il futuro non è altro che una direzione presa dalla memoria.
Le radici non trattengono. Indicano la strada.

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Fate Presto: Film e Backstage

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