Le imprese della moda e beauty e la sfida della credibilità
La Woke-washing Era è quella che possiamo definire come l’epoca in cui le imprese sfruttano sistematicamente i temi sociali più sensibili — ambiente, femminismo, inclusività e diritti — come strumenti di marketing e ripulitura d’immagine.
In questi mesi stiamo assistendo al tribunale dei social, che ormai a suo insindacabile giudizio decreta la fine o il successo imprenditoriale delle imprese. Dalla moda al beauty, numerosi casi suscitano dibattiti accesi e l’attenzione mediatica è costantemente alta.
Cos’è il woke washing?
Il termine “woke” nasce nello slang afroamericano e significa letteralmente “sveglio”. Negli anni Sessanta e Settanta era usato nelle comunità afroamericane per indicare chi era consapevole rispetto alle ingiustizie sociali e razziali. Con i movimenti progressisti più recenti, “woke” è diventato sinonimo di consapevolezza e attenzione ai diritti sociali, alle disuguaglianze e all’inclusione.
Nel marketing e nella moda, il termine viene utilizzato per descrivere brand o persone che mostrano un eccesso di sensibilità politica o di impegno sociale a parole, senza un reale sostegno concreto.
Da qui nasce il concetto di “woke-washing”, quando un’azienda usa un’immagine progressista solo come facciata, appropriandosi di cause sociali come ambiente, femminismo, diritti LGBTQ+ e giustizia sociale esclusivamente a livello comunicativo.
I principali tipi di washing
Il marketing contemporaneo ha visto svilupparsi diverse forme di “lavaggio di facciata”.
Il greenwashing riguarda la sostenibilità ambientale: le aziende enfatizzano politiche ecologiche e packaging verde, senza un reale impegno o certificazioni.
Il rainbow-washing si riferisce all’uso simbolico dei diritti LGBTQ+ senza azioni concrete, mentre il purple-washing riguarda il femminismo come leva pubblicitaria senza coerenza interna, come differenze salariali o politiche discriminatorie.
Il pink-washing è legato alla salute femminile, spesso con campagne di beneficenza inefficaci. Il whitewashing copre comportamenti negativi o scandali con una comunicazione positiva ingannevole.
Infine, il purpose-washing utilizza dichiarazioni di mission aziendale etica o sociale solo per marketing, senza coerenza concreta.
Le imprese sotto accusa e i social come tribunali
La Woke-washing era ha generato una maggiore attenzione da parte dei social verso questi temi. I clienti sono sempre più critici, e il marketing diventa un boomerang quando non supportato da azioni coerenti. Tra i casi recenti, Chiara Ferragni con il cosiddetto pandoro-gate e l’imprenditrice fondatrice di Amabile Jewels, che ha affrontato polemiche per il trattamento di una dipendente incinta, mostrano come i social possano decretare immediatamente il successo o la caduta di un brand.
I brand di lusso non sono esenti. Il caso delle sneakers slip-on firmate Adidas Originals x Willy Chavarria ha scatenato critiche in Messico per l’uso del nome di Oaxaca, mentre gli artigiani locali non hanno ricevuto né credito né benefici economici. In Italia, scandali legati al Made in Italy hanno coinvolto grandi marchi come Max Mara e Armani, sanzionata dall’Antitrust per pratiche commerciali scorrette che hanno ingannato i consumatori sul rispetto dei valori sociali.
Prada è stata coinvolta nello “scandalo dei sandali”, con calzature ispirate ai tradizionali sandali indiani di Kolhapur. La vicenda ha attirato l’intervento della Camera di commercio dell’India e ha sollevato il dibattito sull’appropriazione culturale. Prada ha risposto con una dichiarazione ufficiale, ammettendo l’ispirazione e pianificando un dialogo con le comunità artigiane locali, con la possibilità di produrre i sandali direttamente in India.
Il rapporto imprese e clienti
Nella Woke-washing era, il rapporto di fiducia tra aziende e clienti va costantemente ricostruito. Non basta più applicare le migliori strategie di marketing o di crisis management: occorre conquistare la credibilità dei consumatori. La filiera deve essere trasparente e i valori aziendali coerenti, poiché ogni errore può essere amplificato dai social, distruggendo rapidamente la reputazione del brand.
Per evitare il fenomeno del woke washing, le aziende devono adottare un approccio genuino e autentico verso i temi sociali, sia internamente che nelle strategie di comunicazione. È essenziale ascoltare feedback critici, adattare politiche e pratiche e investire in formazione e sensibilizzazione dei dipendenti. Solo così è possibile costruire una cultura aziendale consapevole e impegnata.
La differenza tra brand activism e woke washing
Il confine tra brand activism e woke-washing può sembrare sottile, ma è sostanziale. Il brand activism si manifesta quando un marchio partecipa attivamente ai cambiamenti sociali, con azioni concrete e coerenti con i propri valori, dimostrando un impegno reale verso cause importanti.
Il woke-washing, al contrario, rappresenta una facciata: la comunicazione di un impegno sociale non trova riscontro nelle pratiche interne o nella supply chain del brand. In un’epoca in cui i consumatori sono sempre più attenti e critici, la differenza tra autenticità e mera strategia di marketing non è solo etica, ma strategica.
Le imprese che sapranno essere coerenti e trasparenti costruiranno fiducia e reputazione duratura, mentre chi userà le tematiche sociali come leva superficiale rischierà scandali e perdita di credibilità. In questo senso, la Woke-Washing Era non è solo un fenomeno mediatico, ma un banco di prova per la responsabilità e la lungimiranza dei brand di moda, beauty e lusso.