Quando la storia implode e rinasce in couture
L’attesa è stata lunga, le aspettative smisurate. Jonathan Anderson ha finalmente presentato la sua prima collezione donna per Dior, la SS 2026, trasformando l’appuntamento parigino in un banco di prova non solo per lui, ma per la stessa Maison. Dopo nove anni di direzione creativa femminile affidata a Maria Grazia Chiuri, la nomina dello stilista nordirlandese ha riportato un uomo al timone della storica casa di Avenue Montaigne, e con lui un bagaglio di codici estetici maturati in oltre un decennio di Loewe.
La sfida, dichiarata fin dall’inizio, non era quella di cancellare ma di filtrare. Inserire la propria voce all’interno di un coro già maestoso, senza ridurlo al silenzio né coprirne la melodia. Una tensione continua, un dialogo fra memoria e invenzione: così si può leggere il debutto di Anderson, accolto con una standing ovation che, più che un punto d’arrivo, sembra l’inizio di un percorso a tappe.
Guadagnino, Curtis, la piramide che implode
Per il suo debutto, Anderson non ha scelto la via della sobrietà, ma quella del gesto teatrale. Ai Jardin des Tuileries, il pubblico si è trovato davanti a una piramide monumentale progettata da Luca Guadagnino. Una superficie bianca, quasi scultorea, che per cinque minuti è diventata lo schermo di un film di Adam Curtis: immagini di archivi, frammenti storici, visioni che condensavano il tema della memoria come stratificazione.
Poi, improvvisamente, la piramide si è richiusa su se stessa fino a trasformarsi in una scatola aperta: non un contenitore inerte, ma un simbolo. Anderson suggerisce che la storia di Dior non è da esporre in un museo, intoccabile e immobile, ma da custodire come energia compressa pronta a implodere e generare nuove forme. La scatola è un archivio vivo, che implode non per distruggere ma per dare spazio alla rinascita.
È qui che si innesta la chiave concettuale della collezione: l’idea che il passato della Maison non debba essere semplicemente replicato, ma continuamente riattivato, come materia da trasformare e reinventare.
Il lessico Dior secondo Anderson
La collezione non si presenta come un racconto lineare, ma come una sequenza di frammenti, tensioni e armonie. Il primo look – un abito in seta plissettata a mano, due pezzi legati da nodi sottili – segna subito l’intenzione di mescolare leggerezza e rigore.
La giacca Bar, pilastro del linguaggio Dior, viene riportata alla lunghezza originale ma alleggerita da innesti in denim e jersey. I capi in maglia, leitmotiv del percorso di Anderson, si trasformano in strutture couture; mentre gonne a panier e bustier drappeggiati dialogano con minigonne sfrangiate e look in pizzo grafico. Il risultato è un’alternanza di monumentalità e quotidiano, di abiti che celebrano la couture e capi più immediatamente indossabili.
In passerella emergono dettagli che raccontano l’immaginario personale del designer: un colletto radicale di Saint Laurent reinterpretato come cappello, le ortensie astratte di Gwen John, una micro rilettura dell’iconico abito Juno. Il tutto filtrato da una sensibilità cromatica pittorica e meditata, con improvvise interruzioni e contrasti.


Couture come spazio di gioco
Jonathan Anderson non presenta una rivoluzione immediata, ma un inizio ragionato. La sua prima collezione Dior non vuole definire subito un nuovo corso, bensì aprire possibilità. I capi non appaiono come dogmi, ma come prove di linguaggio: alcuni più fedeli all’heritage della Maison, altri più sperimentali, quasi esercizi di stile.
La couture, nelle sue mani, non è un altare intoccabile ma un laboratorio creativo. Anderson accetta che ci possano essere errori o tentativi meno riusciti, perché proprio da questi può nascere l’innovazione. È un approccio che aveva già consolidato in Loewe, dove ha trasformato la lavorazione della pelle in terreno di ricerca, rendendola sorprendente e concettuale.
Da Dior, la stessa filosofia si traduce in una couture meno intimidatoria e più aperta: non una collezione uniforme, fatta di cloni, ma una costellazione di proposte diverse. In passerella convivono il rigore della giacca Bar, la leggerezza dei drappeggi in seta, la spigolosità del denim. Non un esercito che marcia compatto, ma una moltitudine che racconta la donna Dior in tante sfaccettature.
Un equilibrio delicato: rispetto e identità
La sfida più grande resta quella di non tradire la monumentalità di Dior e, allo stesso tempo, di non rimanere prigioniero della sua grandezza. Anderson sembra muoversi con prudenza, innestando la marcia ma senza accelerare. La sua collezione non cerca lo shock, ma il dialogo. Piuttosto che imporsi, si propone come un inizio ragionato, consapevole che la couture richiede tempo per essere piegata a un nuovo immaginario.
La standing ovation che ha chiuso la sfilata non è stata un applauso di convenzione, ma il riconoscimento di un debutto che ha saputo onorare la storia senza esserne schiacciato. Anderson dimostra rispetto, ma anche una sottile ambizione: inserire le sue ossessioni estetiche – maglieria, giochi volumetrici, stratificazioni concettuali – dentro il lessico Dior, trasformando l’heritage in terreno fertile per un futuro da scrivere.
Dior SS26: l’inizio di un nuovo percorso
Il debutto di Jonathan Anderson suggerisce un messaggio chiaro: la couture del futuro non sarà rigida né prevedibile, ma aperta e in continuo dialogo con il passato. Anderson non fornisce risposte definitive, ma indica strade possibili. La donna Dior della primavera/estate 2026 può essere al tempo stesso sontuosa o quotidiana, fragile o monumentale, aristocratica o ironica.
A differenza della collezione uomo, qui Anderson gioca con disorientamento e frammentazione: i riferimenti storici vengono scomposti e reinterpretati, creando nuovi equilibri e nuove storie. L’archivio della Maison non è un vincolo, ma una risorsa da far implodere e riattivare con energia creativa.
Gli applausi finali confermano che la strategia ha funzionato: la Maison sembra aver trovato il proprio respiro, e chi ha saputo iniziare con coerenza e rispetto ha già compiuto metà del percorso. Dior SS26 non è un arrivo, ma l’inizio di una fase di esplorazione che promette sorprese per il futuro.




